paolo buzi - castelli-fantasmi-leggende

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"La stanza degli spiriti" Paolo Buzi
per ascoltare il racconto...
voce narrante Maria Carla Scorza
musica di Luca Figliuoli
Sullo scrittoio c’erano fogli bianchi e matite ben appuntite con le quali scrivevo parole sottili come fili di seta che soltanto io riuscivo a leggere.
Se in mia assenza qualcuno fosse entrato in quella stanzetta intenzionato a carpirmi frasi ancora segrete, se ne sarebbe andato via deluso e beffato.
Dobbiamo donare i nostri pensieri e ogni singola parola che li compone; solo quando, però, siamo per primi convinti della bontà dei loro significati e della forma con cui li abbiamo espressi.
A quel punto bisogna liberarli, in modo che possano appartenere a tutti ed è bellissimo per uno scrittore sentirsi citato da qualcuno, sapere di avere raggiunto la sua mente, o il suo cuore, o entrambe le stanze del suo tempio così intimamente da essersi guadagnato l’onore di restare là, di diventarne parte.
È una sensazione simile a quella che prova un pittore quando un suo dipinto entra nella casa di un estraneo o in un piccolo museo di provincia e là rimane, a disposizione di altri occhi.
Al solo pensiero che qualcuno potrebbe fare ricorso a una sua frase, lo scrittore si sente ripagato per gli sforzi, per le notti in bianco, per i dinieghi degli editori, per il troppo alcool da quattro soldi trangugiato o per certi crampi della fame che di solito spengono parecchie luci sopra la concentrazione e la fantasia.
Ce ne saranno ancora, nel terzo millennio, di scrittori che sfidano la fame per inseguire un’idea impopolare, una di quelle idee che non toccano la sensibilità delle masse, che non le scalfiscono nemmeno, che al più le annoiano?
E semmai ce ne fossero ancora, chi li incoraggerà, li sosterrà, gli rivelerà segretamente che annoiare le masse equivale a toccare un apogeo letterario?
Lo indiranno mai un premio speciale, per quegli eroi senza bandiere?
Se non si è profeti, se non si hanno arcangeli alle spalle che dettino testi ridondanti di apoftegmi ripetitivi, allora ci si deve organizzare da soli.
Innanzitutto, è necessario avere un luogo nel quale si sia certi di potere rimanere in sacra pace, almeno quando lo si vuole, un luogo che non sia conteso da altri e in cui nessuno vada né venga senza il nostro consenso.
Anch’io, un tempo, ho avuto un luogo così.
Quella che chiamavo la stanza degli spiriti era una cameretta ammobiliata piuttosto angusta, che però trovavo accogliente e che bastava alle mie modeste esigenze.
Non mi serviva di più; tutto avveniva tra il letto e un piccolo scrittoio.
Erano sufficienti una luce, anche fioca, circoscritta al piano di lavoro, una scorta di fogli di carta e le mie matite.
Per un certo periodo ho avuto anche una penna: era una penna della Suprema Corte Tedesca.
(Che sia stata questa a farmi odiare le penne?)
Se intorno allo scrittoio c’era buio, meglio per me; non mi distraevo e potevo ascoltare il mormorio, all’inizio confuso, che proveniva dalle ombre.
Vedo che poco è cambiato, se non per gli strumenti di scrittura. La tastiera e lo schermo, fonte di una luce propria, hanno sostituito carta, penne, matite e la piccola abat-jour che era sempre a rischio di caduta quando sullo scrittoio impilavo troppi libri.
Ciò che costituiva il corpo della mia stanza degli spiriti non erano le cose solide, bensì il suo vuoto, l’inafferrabile buio.
Era come una grande cassaforte che custodiva parole.
Attingevo dalla sua oscurità; e lo facevo con parsimonia, perché avevo imparato che di certi vocaboli particolarmente belli non si deve mai abusare.
Anzi, bisogna averne cura e conservarli con pazienza, perché l’occasione di usarli prima o poi si presenterà, e dovrà essere unica.
Allora si tratterà di dare ad essi respiro, circondandoli di parole chiare e semplici.
Quando ogni accento, ogni sillaba tonale, ogni scansione suggerita dai segni di punteggiatura daranno vita ad una metrica libera, naturale ed eufonica, beninteso secondo la nostra sensibilità, la frase, anche se letta in silenzio, suonerà dentro la nostra testa come una bellissima canzone.
Avevo imparato queste poche cose tendendo l’orecchio verso il buio di quella piccola stanza. Sapevo di non essere solo, così facevo del mio meglio per apparire gentile verso gli spiriti che con me dividevano lo stesso spazio.
Mostravo loro la mia comprensione ed essi mi ricambiavano con nuove parole, con poesie, con interi pensieri.
Che non sempre capivo.
Più spesso le loro voci mi confondevano ed emettevano, quando parlavano tutti insieme, un suono talvolta assillante, simile a un fischio, o forse al rumore di un vortice. Restavano lì, tra timpani e tempie, come folle vocianti sulla piazza.
Non sono mai riuscito ad addomesticarli.
Eppure sono certo che dicessero cose importanti.
Qualche volta riuscivo a comprendere alcune delle loro parole, e sebbene non formassero quasi mai intere frasi, intuivo che avevano il potere di andare in profondità, dentro di me.
Era qualcosa che mi metteva in apprensione e non volevo che accadesse. Avevo paura che se fossero riusciti a penetrare nel mio inconscio, o anche solo nell’intimo, e a scavarvi a fondo, avrebbero potuto scoprire qualcosa di terribile, con cui non sarei mai stato in grado di convivere.
Nella mia stanza abitavano anche spiriti silenziosi.

Nessuno meglio di loro sapeva animare le ombre sui muri e sul soffitto. Davano a queste una nuova vitalità, muovendole lungo le linee di contorno per mezzo di tremolii veloci e contratti, percettibili anche a occhio nudo.
Quando ero seduto alla scrivania e scarabocchiavo sui fogli senza arrivare a niente, sentivo le loro invisibili masse pigiare contro la mia schiena, come se si contendessero lo spazio per vedere quello che facevo o volessero spingermi a lavorare con più impegno.
Certe volte temevo che qualcuno di quegli esseri puntasse a entrare nel mio corpo per scalzarmi e sostituirsi a me.
Anche per questo, quando sulla carta bianca non scendeva niente, preferivo uscire e vagabondare per le strade, fino a raggiungere i boschi fuori città, lungo i cui sentieri, a volte, finivo per perdermi e sentirmi felice.
Non penso che agli spiriti della stanza il mio lavoro stesse particolarmente a cuore, ma se stavo troppo tempo chinato sopra un foglio senza dare risultati, diventavano aggressivi e irascibili.
Un giorno, del tutto inaspettatamente, ho scoperto che riuscivo a capirli.
È accaduto all’improvviso, senza l’ausilio di particolari accidenti, di febbri alte, di perdite dei sensi, di risvegli dal coma, di stati di trance, di viaggi sotto la guida di sostanze magiche.
Niente di tutto questo.
Potevo parlare con loro come se stessi facendolo con un amico, con un conoscente o con un passante qualunque.
Mi era parso abbastanza evidente che ogni io fosse uno spirito e che ogni spirito potesse avere più io, come chiunque di noi.
Questa volta, però, sono stato prudente e non l’ho confidato a nessuno.
È quasi inverosimile come le profonde differenze di culture portino ad avere, sullo stesso fenomeno, opinioni e reazioni totalmente opposte.
In molta parte dell’Oriente, dell’Africa e del Sud America una persona capace di parlare con gli spiriti è tenuta in alta
considerazione, mentre in Occidente la medesima capacità è considerata, fino a prova contraria, un disturbo della personalità, un’allucinazione uditiva, un sintomo di schizofrenia.
Per giunta, in Occidente una prova contraria non è nemmeno contemplata. Curano direttamente la virtù, annichilendola.
Penso che per uno scrittore, invece, la possibilità di ascoltare gli spiriti, l’abilità di distinguerli gli uni dagli altri, la capacità di farsi capire e di ottenere risposte, siano attitudini rare e benedette che gli potrebbero consentire di attingere a fonti d’ispirazione pressoché inesauribili.
Ben presto mi sono accorto che alcuni spiriti, effettivamente, avevano una naturale tendenza a dettare pensieri, riflessioni, frasi, fatti accaduti, se non anche vere e proprie cronache dal loro mondo.
Ho avuto il sospetto che lo facessero nella speranza, forse nella convinzione, che l’ascoltatore occasionale, ipnotizzato dalla rivelazione della loro esistenza, si sarebbe disposto, come il più umile scriba, a redigere pedissequamente tutto ciò che gli avessero dettato senza mai interrompere, senza fare domande, senza battere ciglio.
Un simile intendimento, a mio parere, rivelava in alcuni di quegli spiriti l’esistenza di qualcosa d’irrisolto lungo la loro linea temporale.
Di qualunque cosa si trattasse, era evidente che avessero bisogno di diffonderla tra i viventi, forse nella speranza che questi, prima o poi, l’avrebbero trasformata in dottrina o in leggenda.
Tale spiegazione, che ritengo ancora tra le più attendibili, mi ha reso abbastanza diffidente al riguardo.
Anche oggi mi sforzo di comportarmi con accortezza e diplomazia, delle quali peraltro non abbondo, di fronte al loro desiderio di suggerire, di dettare, d’influenzare.
Perché a forza di stare con loro, viene naturale pensare che ogni desiderio apparentemente nostro abbia un suo io, che ne abbiano uno per ogni singolo caso le nostre vittorie e le nostre sconfitte, le nostre ambizioni e i nostri rimpianti, che ne abbiano più d’uno i sentimenti che proviamo, le passioni che ci esaltano e quelle che c’incatenano.
Non avere religioni mi ha permesso di capire meglio i loro legami col mondo, d’interpretare più liberamente i messaggi che lanciano verso di noi e di constatare che proprio a causa delle loro fedi religiose molti di quegli spiriti sono ancora qui, imprigionati e sospesi tra le due dimensioni.
Sotto quest’aspetto fanno molta tenerezza.
Le loro debolezze li rendono simili a noi, li rendono mortali nonostante la natura immortale che gli è propria.
Ad alcuni di questi spiriti mi sono legato anch’io e non sono certo che sarei davvero felice se d’un tratto se ne andassero.
Per la stessa ragione, non finirò mai di amare Lea e Chanan, belle anime innamorate che nel Dibbuk di Sholem An-Ski hanno sfidato le Leggi del Supremo per congiungersi e diventare una sola.
Come loro, in questo piccolo cielo ne conosco legioni intere.
Siate quindi sereni e non sentiatevi soli.
Il vuoto è ricolmo delle infinite unità dell’uno: nient’altro che questo è il Supremo.
E mentre leggete queste poche cose, pensate con la stessa libertà di chi le ha scritte che una qualunque frase, che ogni più breve proposizione, che ogni singola parola, fors’anche ogni virgola e ogni pausa tra due respiri hanno un io.
tratto da "La passeggiata a ritroso di Robert Walser" per gentile concessione  dell'autore.
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