Gorzone, la leggenda - castelli-fantasmi-leggende

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Il pozzo tagliente di Gorzone
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voce narrante Lella Viola

Principiamo a narrare da una suggestione di Renzo Bresciani, pubblicata quarant’anni or sono (1980) nel volume “Brescia nell’obiettivo di Fausto Schena”, alla voce “Valcamonica”, una valle che “Può farti la grazia di un pitòto scalfito nel masso vivo da mani misteriose, e poi rivelarti la pia bestemmia del Calvario di Cerveno, o l’arcigno profilo di un castello diruto a Gorzone…”.
E da Gorzone ripartiamo, raccontando un’altra suggestione. Una storia bresciana misteriosa e strana.

La rocca di Gorzone non la vedi più. E’ stata fagocitata dagli alberi. Per scorgerla devi scendere dalla strada che porta in Val di Scalve. Sorge su una modesta altura, dominante il fiume Dezzo. I suoi signori, i Brusati, da sempre di fede ghibellina, forse in ossequio all’imperatore Federico Barbarossa vollero (correva via il secolo XIII) cambiare il nome in Federici.
Il castello sorse intorno al 1150: arcigno, una sola massiccia torre d’avvistamento e difesa, la stalla per il ricovero dei cavalli, qualche rude alloggio per la guarnigione militare lì posta a difesa sia del fiume, così come della valle sottostante.

La triste leggenda che qui qualcuno ancora narra dice della crudeltà di un rampollo di casa Federici, il cui nome la Storia ha preferito dimenticare.
All’innominato signore del castello di Gorzone piacevano le contadinelle fresche e belle e, nonostante le spaventate madri ricorressero ad ogni trucco per sfigurare il volto delle figlie, dipingendolo col carbone o cospargendolo di cenere, il perverso signorotto sapeva bene come riconoscerne l’avvenenza. Una volta all’anno, la vigilia di Natale, in compagnia dei suoi bravi, entrava nelle stalle dove si riunivano i contadini per ripararsi dal gelo dell’inverno e rapiva le poverette tra le urla e la disperazione generale.
Le paesane erano condotte nel castello, riccamente vestite, spronate a bere e a ballare. Poi, dopo essere state costrette ai piaceri dell’ignobile prepotente e quando ne era stanco, venivano gettate nel “pozzo tagliente”.

Tale pozzo è ancora lì, quasi al centro del cortile interno del maniero. Oggi contiene acqua limpida e fresca. Un tempo però, proprio pare, presentava conficcate nella struttura circolare che sprofondava nelle viscere della terra, lame, ronconi, punte affilate… che squartavano le carni di quelle misere donne, mentre precipitavano in quell’orribile anfratto.
Sino a qualche decennio fa le vecchie del paese dicevano che nelle notti tempestose e buie, bastava tendere l’orecchio per sentire i lamenti di quelle povere ragazze.

Quell’anno però il signore di Gorzone non uscì per la sua razzia. I contadini lo aspettarono ansiosi e tristi, ma non si fece vedere. Passò il Natale. Arrivò capodanno. Si oltrepassò, persino, la festa dei Re Magi. Ma niente. Non ce la facevano più. L’attesa, spesso, è peggiore del danno. E decisero di andare a vedere il perché di questa novità.
Entrati nel castello, trovarono porte e finestre aperte. Il cortile era ricolmo di oggetti: quadri, mobili, candelabri, pentole e tegami… tutto sparso per terra. Ma dov’era la servitù? E gli sgherri del signorotto che non lo abbandonavano mai, dove erano andati a sprofondare?

Quella povera, terrorizzata gente, entrò in un corridoio lungo e buio. Si sentiva un lezzo nauseabondo. In fondo al tunnel una porta aperta. Nella penombra un letto, un ammasso di lenzuola: sopra un corpo in decomposizione. Il signore di Gorzone era morto, abbandonato, rimasto insepolto.

Allora ci pensò la pietà di quella gente timorata di Dio. Presero ciò che restava del signorotto e lo andarono a seppellire davanti al sagrato della chiesa che lì sorge, dedicata a Sant’Ambrogio.

Il mattino dopo una donna che per di là passò, vide una cosa agghiacciante: la salma del nobile riaffiorata a fil di terra. Disperata entrò nella torre campanaria suonando a distesa i bronzi. La gente del paese accorse, scoprendo la macabra realtà.

Al tempo nel piccolo paesello c’era una comunità di frati, guidati da un saggio abate che, presa in mano la situazione, decise di riseppellire quei miseri resti, con raccapriccio dei suoi fedeli. Disse, il monaco che già aveva sentito puzza d’inferno, di prelevare dei grossi massi di pietra, dal fiume Dezzo, porli sulla tomba per costringere quel morto a rimanere sotto.

Il mattino dopo, però, si ripeté la stessa scena.
Tutto il paese si presentò sul sagrato (terra consacrata dove, per tutto il Medioevo, si seppellirono i morti, proprio davanti alle chiese). Quei semplici uomini non sapevano che dire e che fare.

Il monaco capì che quella non era opera del demonio, ma di Dio che non voleva i resti di quell’incallito peccatore vicini alla gente per bene colà sepolta, in attesa del Giudizio eterno. Chiese ai contadini di seppellire il signorotto lontano, in una radura, o lungo uno scosceso, o sotto un noce… da qualche parte. Nessuno però se la sentì di offrire anche solo un metro delle loro terre, per paura di rivedere quel corpo riaffiorare ancora, mentre lavoravano.

Il saggio abate allora pensò di seppellire quei resti sotto le acque del Dezzo. I contadini avrebbero fermato il fiume con le chiuse. Scavata una fossa, riaperte le acque… Così il problema sarebbe stato risolto grazie alla presenza, sopra la tomba, del liquido, segno di purezza e a protezione. Il mattino dopo erano tutti presso il fiume. In attesa. Il signore del castello non riaffiorò più. Il monaco aveva visto bene.

Passarono i giorni e i mesi. Del Federici non più un segno, una parvenza d’apparizione. E la paura provata si stemperò nel tempo che va, corre via e tutto cura.

Ma una notte d’estate, mentre un contadino di là aspettava che le acque del Dezzo invasassero per irrigare un suo piccolo appezzamento di terra, pipa in bocca e pensiero lontano, vide scivolare, sulle acque del fiume illuminate dalla luna, un’alta figura, vestita sontuosamente, un alto bavero dietro al collo. Veniva avanti senza camminare, velocemente, e quando gli passò davanti scoprì, con raccapriccio, che aveva le braccia davanti al volto e, da ogni dito uscivano delle fiammelle. Così, il Federici, si faceva luce nella notte buia. Stava ancora cercando un pezzo di terra per la sua tomba, e quella pace che non aveva ancora trovato.

Gian Mario Andrico
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